Come Monet a Giverny o Nolde a Seebüll, sempre più frequentemente negli ultimi anni di reclusione a causa della pandemia, Sandro Trotti fugge da Roma e trova ristoro nella sua residenza di Caprarola, subito alle spalle di Palazzo Farnese, il “regno colorato e profumato dei fiori” (Geffroy). Nella bella stagione infatti le innumerevoli combinazioni floreali, scaturite dal gusto della moglie Hawa, danno vita a un tripudio di forme e di colori, un effimero atelier nella natura, fonte inesauribile di ispirazione per uno studio meticoloso e ininterrotto di queste gloriose icone del transitorio, languidamente appassionate.
Gli aulenti prati fioriti in primavera diventano soffici tappeti su cui si risveglia dolcemente l’audace carnalità dei nudi di un erotismo melodioso. Giovani ragazze distese come odalische, assopite, sognanti, le gambe aperte, seni che non hanno conosciuto il silicone, di una prorompente o più discreta sensualità. Ad attrarci la tenerezza dei volti, di una grazia indicibile, messi magistralmente a fuoco con poche sapienti pennellate, come avrebbe fatto Manet, rispetto agli incarnati rubensiani, consumati e persi sull’erba nella voluttà della pittura.