Le vasche piovane che nei giardini pittorici di Elena Giustozzi hanno accolto a pelo d’acqua il portato del vento fanno immergere lo spettatore in un universo dove foglie, rami, pesci, petali, insetti, semi, pollini si fissano ‒ e le nuvole passeggere in brandelli di cielo si riflettono nelle varie gradazioni atmosferiche ‒ correlativi oggettivi di emozioni, sensazioni, voci e ricordi che prendono corpo in una sorta di liquido amniotico, sospesi nella resina di dischi tridimensionali che intrappola (come l’ambra) e salva la vita dal suo disfacimento, sottrae frammenti di natura alla caducità dell’eterno fluire del tempo.
Nella forma sacra, rinascimentale del tondo questi suggestivi microcosmi galleggianti in un fermo-immagine più o meno a fuoco e mobile divengono opere d’arte grazie a una straniante traslazione di prospettiva, dal piano alla parete, soglie dipinte da attraversare per leggere nel profondo, illusori diaframmi tra realtà tangibile, immaginario e una torbida, inquietante interiorità in cui lo sguardo è libero di perdersi.